Leopardi “regressivo”: i Dialoghetti reazionari del conte Monaldo

Nei giorni delle celebrazioni per i 220 anni dalla nascita di Giacomo Leopardi niente sembrerà più controcorrente del dedicare un articolo al padre del poeta. E d’altra parte controcorrente era lo stesso conte Monaldo. Relegato nelle antologie scolastiche alle righe che lo descrivono come un bibliomane bigotto e troppo prodigo, e perciò sottoposto alla severa vigilanza della moglie, fu in effetti uno dei principali esponenti in Italia della tendenza controrivoluzionaria. Per un soffio scampò all’esecuzione della condanna a morte decretata dai francesi, che non gradirono il suo moderato impegno come governatore di Recanati sottratta per un breve periodo, nel giugno del 1799, al controllo della repubblica transalpina.

La visione politica di Monaldo si trova tutta nei Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831 e nel Viaggio di Pulcinella, ora ripubblicati insieme all’Autobiografia (OAKS Editrice, 2018, pp. 263, €20). La critica reazionaria dei dialoghi tra allegorie non risparmia neanche la Restaurazione: una donna “zoppa, e impedita di lingua; ha le mani legate, non ha un vestito da mettersi addosso, non può guardare né addietro né avanti”. Il mondo infatti, anche dopo Waterloo, porta ancora i segni del contagio della “rivoluzione, che è astuta e sottile come una serpe” e ha influenzato le determinazioni del Congresso di Vienna con i consigli accomodanti di una Politica sorda ai precetti della Giustizia.
Frontespizio dei Dialoghetti, da Wikimedia Commons
Nel colloquio tra la “mamma” Europa e l’inquieta figlia Francia, Monaldo spiega quello che considera l’inganno su cui si basano le carte costituzionali: “Un contratto fra il popolo e il re? […] Figliuola mia l’autorità dei re non viene dai popoli, ma viene a dirittura da Dio, il quale avendo fatto gli uomini per vivere in società ha reso necessario che un capo li governi, e con ciò ha comandato che i popoli ubbidiscano ai re. Il re deve procurare tutto il bene del popolo; il popolo deve ubbidire a tutti i comandi del re, e questa è la gran carta scritta con la mano di Dio, e stampata col torchio della natura”. I monarchi, del resto, “non possono volere il male del popolo, perché il popolo è la famiglia e il patrimonio del re, e nessuno vuole il danno della propria famiglia e la rovina del suo patrimonio”; e sarebbe comunque “meglio essere esposti all’errore di un solo, che agli errori di tutti”.

Se Hegel a Jena era stato abbagliato dalla vista di Napoleone a cavallo, manifestazione stessa dell’“anima del mondo”, Monaldo Leopardi si era persino rifiutato di affacciarsi per assistere al passaggio a Recanati dell’allora imperatore, incarnazione dell’odiato spirito del tempo. Ma persino il Corso, ovviamente all’Inferno, è arruolato nella critica ai francesi, colpevoli di aver spodestato il reazionario Carlo X per porre sul trono Luigi Filippo d’Orléans: “con l’abuso perpetuo della libertà, e con le mani lordate del sangue dei vostri re sarete sempre la giustificazione la più evidente del dispotismo”.

Le rivoluzioni sono come le fiamme alle quali non si deve accordare il tempo di dilatarsi. Se date tempo al fuoco è finita, e va in cenere tutta la casa”, afferma il Mondo. E Monaldo cosa propone per impedire che l’incendio si propaghi? Lo si vede al termine del viaggio che dalla Napoli borbonica conduce un Dottore, convinto della bontà della democrazia moderna, e Pulcinella, ben più scettico, in Francia, “terra beata della libertà”, salvo poi tornare disillusi sui propri passi (“La rivoluzione sarà bella e buona per li professori dell’università, ma tutto il resto del mondo sta peggio dopo, che prima”). A loro l’Esperienza affida una lettera da consegnare ai re affinché ricordino che “Quando coi cattivi non basta alzare la voce, bisogna alzare le mani e punirli, ma i castighi devono essere certi e severi” e che “il principe più pietoso è quello che tiene per primo ministro il carnefice”. Joseph de Maistre non avrebbe avuto nulla da ridire, così come avrebbe concordato con questo ammonimento: “Ristabilite le pietre dell’Altare, e la solidità dell’Altare sarà la fermezza dei vostri Troni”.

Comparsi originariamente sotto lo pseudonimo di “MCL” (Monaldo Conte Leopardi), i Dialoghetti ottennero grandissimo successo, ma provocarono il disappunto del povero Giacomo, a cui diversi attribuirono all’epoca la paternità dell’opera. Andava bene ironizzare sulle “magnifiche sorti e progressive” proclamate dal “secol superbo e sciocco”, ma non si poteva sopportare di essere considerati artefici di “quell'infame, infamissimo, scelleratissimo libro”.

Alessandro Della Casa