"I piani inferiori della luna" di Michele Manna (Ensemble edizioni), Recensione

È sotto le prime luci del giorno, in mezzo ai primi freddi e nelle prime avvisaglie di un cambiamento agognato, che si scorgono bene le differenze tra ciò che era e non è: in un rapido mutare di intensità e di bisogno, ci si accorge di quanto siano cedevoli alcune prese di posizione. Ogni cosa a suo tempo, e ad ogni tempo un frutto, una speranza, una misura differente. Non serve poi molto: nella brevità di un input, si ha spazio per tutto ciò che conta, soprattutto in termini di energia e di significato, magari anche di simbolo: prendiamo le storie lunghe, e la musica, quando si ha fretta che cominci e quella si dilunga e ci fa sospesi e languidi. Si può trarre molti insegnamenti e sensazioni, da una storia che non smette prima di averci dato almeno un cenno di quell’infinito di cui solo abbiamo avuto e avremo appena un’intuizione irrisolta. Allo stesso modo, non sono poche le conclusioni e gli inizi che si possono ricavare da un insieme fatto di poche parole, se ben scelte. Ho letto di recente un libro di Michele Manna: I Piani Inferiori della Luna (ed. Ensemble).
Immagine da Ibs.it
Già dal titolo non c’è da aspettarsi nulla di meno che una sorta di stratificazione: una storia, sull’altra, sull’altra, e così via. Non si resta delusi, infatti: sono tutti racconti che abbracciano l’idea della brevità e la tengono stretta. Brevità non scevra di molti effetti e alte profondità. Un’esperienza comincia e finisce, poi cede il passo a nuove riflessioni e nuove fantasie. Non vi è un filo conduttore, un seguito obbligato e stretto. Ci si lascia guidare da ciò che l’autore ha sentito fosse buono per un dato momento, e molti a seguire. Tuttavia non si ricava alcun disordine da quei frammenti: ogni racconto porta con sé un sentore di vicinanza, di comunione. Mai nessun personaggio vaga per il solo vagare. C’è sempre una spinta dietro ogni cammino, ogni angolo, ogni solitudine raccontata con un tono a tratti lirico, conciso, nostalgico, emozionale. Tanto e fino alla fine: non è un libro da leggere per svago, ma per il piacere di immergersi nei toni più densi e a volte cupi, dell’esistere. Perché non siamo sempre bagliore e freschezza, non sempre sorriso e giovialità. A volte siamo anche un grande e confuso istinto: d’amore e di sopravvivenza; di freddo e di calore spropositato, che deve trovare un fluire e se tenuto solo dentro è per paura e per dolore addolcito, un’ammissione alla volta.

«Un giorno arriverai anche tu, da lontano. O da dove vorrai.
Ti vedrò.
E tu avrai l’arte di sapere che sono io.
Ci stringeremo. Là dove ogni giorno attendo. Nella sala degli abbracci, che la poca strada percorsa da quest’auto già sottrae alla mia vista.
Resteremo. Fra gli altri che passano.
Fra gli altri che, dopo un attimo, già interrompono il loro ritrovato abbraccio.
E sarà stato utile ogni volo mancato».

Perfino la punteggiatura si ferma di continuo per prendere respiro. Bisogna restare in attesa e addirittura crearla, se necessario. Bisogna frenare lo spasmo e la rincorsa, guardare con occhi innamorati anche la sola possibilità dell’esserci come vorremmo, senza dover per forza fare i conti con l’imperativo della riuscita: non si riesce ma si esce allo scoperto, semmai, col proprio carico di meraviglie e timori. E ci si ritrova con un’idea di interezza addosso, che diviene completa davvero solo grazie agli equilibri nient'affatto docili di un incontro col mondo, e con l’altro. Perché siamo niente meno che un ritrovato abbraccio, come scrive Michele Manna. Una dolcezza e un’incertezza che si ripete; un bisogno che permane, nonostante si tenti di camuffarlo in ogni modo.
I Piani Inferiori della Luna è un libro buono per chi intende guardarsi come in uno specchio, con gran coraggio e riconoscenza.

Nicoletta Prestifilippo