Head Over Heels: un amore senza fine lungo un cortometraggio

La bellezza delle cose fugaci si apprende quando è la vita stessa a essere messa in opera. Proprio l’opera è il punto chiave, quando non è più l’eccezione a godere della massima attenzione ma la regola: quella a cui assistiamo in mille declinazioni, e che arriviamo a respingere più o meno segretamente, quando è sgradita; e che a volte ci rivela che essere patetici, miseri, qualunquisti, miscredenti, mediocri, poco importa: tra le pieghe di un giorno, una posa, un sentimento che prevale fra tanti, si nasconde la dolce carezza del conforto, l’usuale che non è condannabile a ogni costo ma è comprensibile, e talvolta perfino desiderabile. Ciò che si conosce a tal punto da risultare odioso, come tutto quanto si biasima con facilità estrema, a volte è casa. Funziona come fosse uno specchio: quello che arriva vicino e funge da abito e da cosa conosciuta rivela a noi stessi ciò che siamo, ci smaschera e non si cura dei tentativi di protezione, né di chi piano svanisce, essendosi ripromesso di farlo, pur di sottrarsi a un dolore.
Si prenda un tema gravoso, quale l’incomunicabilità. E lo si ponga, poi, in forma di domanda o di stretta evidenza. Si noterà quanto poco tornerà indietro, di quell’azzardo: rendere palese un dolore spaventa; e le parole che accorrono a saziare un tale impulso, sono spesso inadeguate, smilze. Si useranno frasi fatte, schermi di ogni tipo, difese coriacee a oltranza. Fino a che, per caso o per quiete, si attuerà un meccanismo nuovo e salvifico: il gesto del riconoscersi in qualcosa, in qualcuno; e le più svariate forme d’arte, di musica e di parola altrui, in grado di portare a una forma più alta di sollievo e di comprensione. Head Over Heels, per esempio, è un cortometraggio in stop-motion diretto da Timothy Reckart che proprio dell’incomunicabilità fa la sua forza.

La storia dura poco più di dieci minuti, si proietta in un video che si serve di pochi rumori, di una colonna sonora minimale, di una scena rustica, ristretta, quasi claustrofobica, che è casa. E non certo vissuta come nido, come culla, piuttosto come una sorta di santuario, un tributo silente a una vita passata, a un amore spento. Un disordine che non è nutrito da voci che si affiancano, si sovrastano, fanno baruffa o pace amorosa e imprevista: tutto tace, all’infuori di qualche grugnito pieno di palese disaccordo e di contrarietà.
Succedono piccole cose: una foto in cornice appesa a un muro, che non sta mai per il verso giusto. La convivenza stanca, sfibrante, di due persone che condividono uno spazio soltanto per abitudine. E si chiudono in quello, ma ancora di più in loro stessi, impedendo qualsiasi tentativo di avvicinamento: l’orgoglio muove le persone come marionette, le irrigidisce come se in loro non scorressero sangue e desideri, ma nude ossa, e fredda lontananza. Ciò che salta immediatamente all’occhio è la condizione in cui vivono i due protagonisti: un uomo e una donna non più giovani che lasciano intravedere, tra le righe, le gioie e i dolori di una vita trascorsa insieme, in qualche modo. Vicini e imprendibili: quell’abitazione piccola e spartana ha due tetti, due pavimenti, un solo spazio al centro, dove per poco, e solo qualche volta, si sfiorano: sguardi e capelli, se tutto va bene. Non osano toccarsi neppure per errore. E non è facile augurarsi che si scontrino, almeno, risollevandosi da un’ostinata e forzata indifferenza: vivono ai lati opposti, una in alto, uno in basso; e comunque, uno dei due a testa in giù, a seconda del punto dal quale li si osserva. Ed è da quelle posizioni assurde, che si trovano a condividere tutto quanto vi è di perfettamente immaginabile, ossia la vita di ogni giorno: cucinare, rassettare, sedersi a pisolare su una poltrona, guardare la tv.

La gentilezza, in tutto questo, arriva come un atto rivoluzionario: non la si aspetta, poiché nulla lascia presagire un incontro, un ribaltamento della questione, pure in senso letterale. Restare ancorati a un diniego, del resto, è cosa assai semplice: non spinge, guasta solo all’interno, non richiede alcuna prova. È sordo a ogni richiesta, non ha novità da elargire. Pertanto sonnecchia comodo, affossato nelle poche cose che sa. Solo chi si sveglia da quel sonno che ha peso e sentore di letargo, chi non si accontenta di essere una pedina delle proprie paure e ostinazioni, intravede una scorta di dolcezze nuove da inseguire con piedi leggeri, di piuma. In fondo la delicatezza non è mai troppa, quando si parla di rapporti umani di ogni genere. Eppure viene spesso considerata alla stregua di un materiale in disuso, ostinazione imberbe che molto deve fare, prima di crescere e di ottenere consenso e giustizia. L’idea che questa conservi un posto e l’importanza che merita, in mezzo a un gran ribaltare di ruoli e priorità, di giorno in giorno, è un atto a dir poco rivoluzionario: viviamo in una serie di micro-realtà, che da sole costituiscono la più grande e paradossale alternativa al vivere. Realtà virtuale, realtà percepita, realtà messa alla prova in assenza di giudizio, dove con giudizio si intende quello che manca a chi dovrebbe fornirci garanzie di vita quantomeno dignitose. E nonostante tutto, in questa gran dispersione di intenti e di risorse, ci si ritrova, ci si riconosce: vi sono esistenze fatte per contemplarsi a vicenda, nel tentativo di lasciarsi liberi e di restarsi accanto, per amore di una reciprocità di intenti e di voglie che non è facile portare avanti con lo stesso passo.
Head Over Heels quel passo lo pone in maniera talmente scombinata, vertiginosa, ricalcata sulle impronte incerte del ricordo e della nostalgia, da risultare la perfetta sintesi di ciò che spesso siamo: anime vaganti e non vacanti, anzi piene fino all’orlo di tutto, e totalmente assorbiti, confusi, inclini al ripensamento.
La fine del cortometraggio è lieta, e molto: è costellata di piccoli compromessi, non è perfetta, e proprio per questo sa di autentico. Non è tutto rose e fiori, è vero: non a caso si apprezza doppiamente quel tocco vellutato, l’odore conservato tra i petali chiusi a scrigno, quando capita di incontrarne almeno un po’. Senza l’ostinazione di chi cerca e vuole ogni cosa, anche sbagliata, pur di colmare un vuoto pressante: solo equilibrio e sentieri nuovi da percorrere, con occhi bene aperti e una fiducia nuova. Anche e soprattutto in chi scegliamo di avere accanto.

Nicoletta Prestifilippo