Paciv Tuke. Sporchi, Cannibali e Ladri di Bambini: recensione del romanzo di Simona Fiori

Muovere è un verbo che mi cattura, e che si addice a molti tempi e circostanze: si muove il corpo, per una spinta o una tentata armonia da seguire. Si dice “gattonare” quando spostarsi non contempla l’azione del mettersi lunghi e ben tirati, puntati all’insù; ed è cosa da bimbi, ma non solo: se è gioco di adulti è seducente, e mica poco.
Si muovono però, anche le emozioni: com-muovere, oppure muovere a pietà, che non è poi così piacevole come suscitare qualche tipo d’altra sensazione in grado di svegliare dal torpore dell’indifferenza. Coltivare un sentore qualsiasi come una pianta che presto darà frutti buoni e odorosi, e chiedersi a cosa potrà mai portare. La staticità non sempre è delle cose che lasciano il segno. Ed è in questo senso che sono stata mossa: sfiorata e pungolata, intenerita e rattristata, infine sollevata da una lunga scia di parole abili e ben scelte, e dal libro che le conserva: Paciv Tuke. Sporchi, cannibali e ladri di bambini, di Simona Fiori (Saecula Edizioni), ha il dono delle cose che per quanto forti, e nonostante la durezza della storia narrata, sono pregne di una delicatezza che avvolge, che accarezza, che dona respiro e visioni nuove, sfaccettate, da percorrere a lungo.
Copertina di Paciv Tuke, Ed. Saecula
Fonte: Liberoquotidiano.it
Siamo fatti di un passato che, un tassello per volta, ci conduce a un presente insoddisfatto, a tratti letale, mutevole, ma sempre prezioso. Abbiamo voci care da ascoltare, e racconti da tenere stretti, colmi di rimpianto. E poi il freddo nelle ossa, i crampi nello stomaco, la fame e un ventaglio di brevi soluzioni, diluiti nelle cose che insegnano il sollievo: un pasto caldo, un abbraccio, un posto da chiamare casa, la vita che piano si spegne, ma prima conta anni lunghi, pieni e vigorosi, da decantare sul fondo di occhi che la dicono proprio tutta, la felicità dell’esserci.
Interi capitoli di una storia puntellata di guerre trapelano dai volti e dalle testimonianze di chi si dice sopravvissuto. Ed è con voci a stento sibilate, piccole, spezzate, che chi ha subito tanto tenta di abbattere una volta ancora, la parte di oscenità che gli è toccata in sorte. Simona Fiori ne ha trascritto un momento essenziale, che non lascia indifferenti per la brutalità degli scorci descritti e la bellezza incontrata un istante prima che tutto mutasse radicalmente; e lo ha fatto usando una scrittura capace di coinvolgere e lenire all’occorrenza. I protagonisti del romanzo sono a dir poco variopinti: una donna di proporzioni non irrilevanti, nel corpo e nello spirito, che fin dal nome sembra suggerire quali siano le sue misure: Gwenna, la donna barbuta dallo spiccato istinto materno; “Gwennina”, per la tenerezza che è capace di risvegliare nell’animo di chi si trova ad essere destinatario delle sue premure. Ferdinand è l’amico fidato, il talento innato per la musica che è linguaggio e appartenenza, il nano burbero solo a un primo incontro.
Poi vi è l’ombra di due gemelli, compagni di vita, amici discreti e silenti che vanno incontro a un destino di morte e tuttavia restano vivi, nel ricordo e nell’energia: guide spirituali per coloro che in vita li hanno amati. Un’orsa porta il nome di una donna che non vuole scordare la sua identità: fanciulla aggraziata, delicata, che non ricorda di essere mai stata giovane e bella, ancora meno libera, e che fa di una fuga spossante, una lenta rinascita.
Sono tutte esistenze disgiunte, differenti; una declinazione al singolare che per una serie di incontri fortuiti, radici ben salde e tristi cause da ammorbidire al meglio, diverrà comunione di intenti e di speranze.
Con passo lento e picchi di circospezione, tutti loro si guarderanno e impareranno da ciascuno, almeno un pezzetto di buonumore e di amore insospettato per la vita: proprio quando verranno fatti prigionieri, quando il valore e la dimensione di un’amata libertà personale cominceranno a sbiadire, si renderanno portatori di un sentimento di amicizia che mai avevano conosciuto con una tale lealtà e intensità: dinanzi a un dolore ingiusto, straziante, pure il buono che c’è trova spazio e necessità, diviene di vitale importanza. E lo è quel sentimento quasi fraterno, di quelli che salvano a dispetto di tutto, e accompagnano, consolano, trovano la perfetta espressione di un momento anche attraverso il gesto più piccolo: un abbraccio, uno sguardo, un accordo silente.
I protagonisti del romanzo si muovono di continuo, danzano, cantano, fuggono da una realtà che vuole solo schiacciarli, umiliarli: vita gitana, la loro, che sono zingari, sono un cerchio, sono un mondo che lievita dentro un mondo più grande. Sono festa, calore e leggenda. Scelgono e abitano come tutti un pezzo di un’amata terra, almeno fino a che questa gli viene sottratta. Scoppia la guerra e sgretola ogni certezza, spazzando via i gesti usuali, la quotidianità: si diffondono leggi urlate, digrignate, folli. La vita è per chi risponde a precisi canoni, tutto il resto è trattato come il peggiore dei mali, da chi non può chiamarsi uomo, eppure si muove tra i vivi, si erge a padrone assoluto di tutto, uccide e non prova rimorso. Pure la vita degli zingari perse di valore, appesa ai margini e fin troppo libera per essere ingabbiata per davvero. Chi sopravvisse allo sterminio avvenuto in guerra, non poté più dirsi vivo per intero. Chi non saggiava la morte per mano altrui, perdeva la dignità e gli affetti senza una spiegazione che non fosse quella del dilagare di una follia becera e oscura.
Racconta proprio questo, Simona Fiori: il momento esatto in cui il male, in un primo momento acquattato, si dispiega con forza, separa e cancella tutto ciò che era un tempo e non sarà mai più, dopo una simile, terrificante parentesi di storia accaduta in tempi nemmeno troppo lontani. E lo fa con parole di favola, carezzevoli, a tratti commoventi e piene di dolore. Annoda i fili, lì dove la vita smette e poi continua, come in un balzo: mai nulla deve essere dimenticato, per non cadere ancora nello stesso errore, e nello stesso orrore.

Nicoletta Prestifilippo