L’armonia in ogni forma: le "petites bonnes femmes" di Valerie Hadida [arte]

Nel tepore di certi giorni, si ripercorre tutto il tempo speso a non lasciare freddare cose e sensazioni, come accade con le mani esposte a un vento sottile, carico di neve. Tenere al caldo è un’arte nobile e complicata: si accosta all’osservazione attenta, ai rimedi appresi da chi ne sa di più, per una questione di abilità e di esperienza. Si nutre del tempo declinato all’infinito, che appartiene alle premure più dolci: dare, scambiare, carezzare. Poggiare un bacio sulla fronte quando il sonno si fa imperativo, e allora bisogna dormirlo bene.
Ci sono molte fasi, in un’intera vita. E non una che possa mai dirsi davvero conclusa. Certo, lo è l’adolescenza a sessant’anni: finita da un pezzo, e forse un po’ sbiadita. Ma ogni cosa si ripropone con un’imprevedibilità che a tratti sgomenta, e non per emulazione: ogni periodo si discosta dall’altro in maniera netta; eppure lascia come uno strascico, una nostalgia nascosta proprio in fondo, che si ritrova nei momenti bui: quelli che affossano, quelli che vedere nero e senza sbocco è una specie di teorema, un rompicapo senza soluzione apparente. E l’apparenza inganna, si sa, ma mica tanto. Io, per esempio - e lo sa chi mi guarda per davvero -, dentro di me ballo e scalpito, mi assento e tremo pure stando ferma. L’imbarazzo è una questione penosa, e deliziosa solo un pizzico: insegna a sviare discorso e attenzione, magari col potere sano e dissacrante dell’autoironia. Oppure con la sincerità, quando ad un certo punto si capisce che niente rischia di essere smarrito, all’infuori di sé stessi. E allora tanto vale fermarsi e spogliarsi un po’, una resistenza alla volta, persino sotto gli sguardi altrui e soprattutto quando non sospettano quale sforzo vi sia alla base, e quanto costi a uno soltanto, il doversi superare, lasciandosi imbrigliare in un incontro e in una specie di inventario: dunque dirsi ad alta voce quali sono le strette sane, quali le sconfitte, i fastidi. Dove si colloca quel brivido veloce, e come fa l’entusiasmo a coprire la voce, quando sotto la doccia si finisce per tentare di impersonare una creatura a metà tra Jonathan Davis ed Elizabeth Fraser.

La verità sta in ciò che si sente, nel modo in cui si sente. A ciascuno di noi è data la missione e la fortuna di scoprire in quale direzione incanalare ogni energia spesa e inutilmente soffocata; ogni impellenza. Chi lo fa con la scrittura, chi con la musica o con l’arte: Valerie Hadida è da posizionare proprio in quest’ultimo gruppo. Ed è una specie di carezza per chi osserva le sue opere. Un sollievo e un respiro ampio, poiché nel suo talento, nelle sculture che mette in piedi e quasi in vita, un poco ci si specchia, un poco si ammira, e poi si torna al punto di partenza, ormai svelati.
Le sue sculture bronzee sono talmente leggere all’occhio, spirituali e terrene, imperfette e meravigliose, da invogliare lo sguardo a una ripetizione che non ha nulla di banale: è un ritornare più volte su un dettaglio che può trovare forza e incanto nelle linee dei capelli ricci, mossi dal un alito di vento invisibile. Oppure negli occhi chiusi, nel volto puntato all’insù di certe donne rappresentate: come per non lasciar sfuggire un’intuizione, un odore; come per lasciare scorrere al proprio interno, i benefici di un incontro, un pensiero, una nuova dimensione da intendere tra sé, duramente conquistata e preziosa. Un momento di raccoglimento spesso celato nelle espressioni delle petites bonnes femmes di Valerie Hadida: il suo universo è femminile in ogni piega, e non intende escludere ma invitare, rendere partecipe chiunque si trovi ad entrarvi. È una dimensione che ha tratti fantastici, richiami a una natura selvaggia che in rari sogni e in una manciata di leggende, deve pure averci abitato.
Immagine da lilavert.com/blog
Essendo donne, sappiamo cosa vuole significare tutto questo spingere, dissotterrare, questo essere femminile che si impone anche quando non lo possiamo sapere, e soprattutto allora. Un po’ perché è questa la parte di vita, la forma e il piccolo prodigio che ci è toccato in sorte, dunque mai potremo pensare come un uomo, agire come un uomo, sapere cos’è che manca, al di là di una primissima apparenza che renderebbe ben facile una risposta: siamo diversi e complementari, fin nel corpo. E veniamo da lontano, quando il tentativo messo in opera è quello di comprendersi: serve un fiume di parole, un cielo stellato, la risacca e il vento che porta via le parole sfuggite di bocca, quelle di cui pentirsi, amare e aspre, a restringere la bocca che invece è così buona, rossa come le fragole quando sono rosse e mature, dolci come quando le si chiede in dono alla terra e non agli scaffali di un supermercato.
Immagine da lilavert.com/blog

Le donne di Valerie Hadida ricordano tanto quel tipo di bellezza fresca e rigogliosa, spontanea
. E sanno raccontare, a chi le osserva, buona parte di quell’intimità che raramente si riesce a confidare, perché tocca tutto l’essere, toglie e agita il respiro, mette lacrime a cascata dentro gli occhi, e un vuoto di vertigine in pancia. E sono un dolore affrontato con coraggio, sussurrato e poi taciuto, da cercare con attenzioni di velluto e distrazioni imponenti e divertite, fragorose solo nella felicità che a volte scoppia in petto. Poi si torna a essere ciò che si è, con le proprie battaglie, le conquiste, gli atti di fiducia concessi e avuti in dono. Si torna di soppiatto dentro il proprio corpo, come in quella superficie solida, di statua, che pure appare così morbida e in grado di abbracciare ogni cosa. Anche chi in qualche modo si nasconde sempre, per pudore o per l’inganno di una mente da rivoluzionare.
Alcune statue hanno linee esili e allungate in maniera inverosimile, ma efficace: ancora una volta un segno distintivo, una riflessione, un marchio. Vi è come una tristezza lieve e diffusa, che trova un terreno fertile in ciò che si affida al sesto senso, all’immaginazione. Sguardo basso e ossa sporgenti, e quel sentirsi una cosa da niente, infinitesimale, che in qualche modo si ritrova in altre forme: statue-donna dai fianchi larghi e la coda da sirena, chiuse in una specie di abbraccio in solitaria, ma comunque forte, imbattibile. A ogni corpo, una e mille storie. E poi un languore, una trama fitta e lasciata sfumare: una carezza che non ha voce, e ha mani inermi, modellate; e dentro quelle non scorre il sangue, ma ecco la bellezza dell’arte: l’emozione non trova ostacolo nei materiali, nella lontananza, così come l’identificazione, la fantasia, e un mucchietto di promesse buone da invitare.

Nicoletta Prestifilippo