Il governo dei vulcaniani - Breve storia della critica alla democrazia

Forse gli scrutatori non sempre se ne accorgono, ma in occasione delle elezioni ai seggi si presentano hobbit, hooligan e vulcaniani. I primi sono scarsamente informati, i secondi sostengono acriticamente le ragioni della propria parte, i terzi sono informatissimi e desiderosi di perseguire il bene comune. I loro voti valgono allo stesso modo. E, dal momento che sono più numerosi, i primi due sconsigliabili gruppi impongono il proprio volere anche al rispettabilissimo ultimo. In Contro la democrazia (Luiss University Press, 2018), il politologo libertarian statunitense Jason Brennan sostiene che qui sta il difetto di fabbrica della democrazia, che porta a risultati elettorali irrazionali e a rappresentanze politiche inadeguate alle scelte da compiere. Il punto, in sostanza, è la non necessaria convergenza tra la correttezza della procedura e la bontà delle sue conseguenze: un governo o un parlamento rappresentativi della maggioranza non saranno inevitabilmente un buon governo o un buon parlamento. Perciò, se si assumesse un’ottica “strumentale” e si guardasse ai risultati delle decisioni più che al metodo con cui sono assunte, la migliore forma politica non sarebbe democratica, ma “epistocratica”; vale a dire un sistema in cui prevalga la conoscenza. Perché ciò sia possibile, va conferito un maggiore valore elettorale (e quindi la possibilità di esprimere più di un voto) ai membri più saggi e competenti della comunità.
Probabilmente non saranno in pochi a condividere questa visione, che ha trovato vigore a seguito della Brexit e dell’elezione di Donald Trump (che però aveva raccolto meno consensi popolari) e, per restare a casa nostra, dopo le elezioni politiche del 4 marzo. Ma già nelle Riflessioni sulla Rivoluzione francese (1791), pubblicate a poco più di un anno dalla presa della Bastiglia, il britannico Edmund Burke si scagliava contro i filosofi francesi che avevano preteso di trasformare la questione della natura di uno Stato in un “problema di aritmetica”: “La volontà della maggioranza e gli interessi della maggioranza sono raramente la stessa cosa, e la differenza sarà enorme se, in virtù della sua volontà, la maggioranza fa una cattiva scelta”, scriveva il buon Burke.
Edmund Burke
Questa, certo, era la visione di un conservatore. Eppure anche un radicale come John Stuart Mill in pieno ‘800 riteneva che, se non si fosse bilanciato il peso del numero con quello riconosciuto al merito, la società democratica avrebbe rischiato di diventare una “mediocrità collettiva”, impedendo il progresso e il “perfezionamento” dell’individuo e dell’intera umanità. Nelle Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), Mill elaborò un progetto di riforma che mirava a conciliare il diritto della maggioranza a governare con quello della minoranza ad avere un’adeguata rappresentanza, rendendo la partecipazione alle scelte politiche un momento educativo. Innanzitutto avrebbe affiancato alla Camera dei Deputati, eletta dal popolo con metodo proporzionale, una “Camera degli Statisti”, alla quale sarebbero state nominate personalità di elevata competenza. Poi avrebbe privato del diritto di voto tutti gli evasori fiscali e coloro che vivevano delle elemosine (se uno dei compiti principali di un governo è utilizzare il denaro ricavato dalle imposte, chi non partecipa alla tassazione non deve eleggere chi gestirà le finanze). Inoltre avrebbe assegnato la possibilità di esprimere più di una preferenza ai cittadini che si fossero distinti sul piano culturale, mentre avrebbe escluso dal suffragio i cittadini totalmente analfabeti, che non avrebbero avuto la capacità di formarsi un’opinione libera ed autonoma (ma, allo stesso tempo, lo Stato avrebbe dovuto istituire un servizio scolastico gratuito per ridurre la piaga dell’analfabetismo).
J.Stuart Mill
Pur con tutto l’apprezzamento per le finalità a cui miravano, queste ricette appaiono inattuabili tanto quanto quelle simili che vengono avanzate ora, e probabilmente contribuirebbero ad aumentare la distanza tra popolo ed élite. Ma, alla fine, siamo sicuri che un governo dei più competenti conosca veramente il bene comune (ammesso che si possa concordare su cosa sia il “bene comune”)? I risultati di alcuni recenti governi tecnici, pieni di persone titolate e competenti (vulcaniani, insomma), lasciano più di un dubbio.

Alessandro Della Casa