Giochi senza età e senza tempo: Ole Christiansen e l’invenzione dei mattoncini Lego


Mi chiedo spesso dove finisca il tempo per fare grandi cose. Per molti, quello non arriva mai. 
Il talento, l’ingegno, il genio che viene prima di altri a formulare un’ipotesi vincente, a crearla dal nulla plasmando le materie a disposizione al fine di dare vita a ciò che prima non c’era, è argomento buono per i sognatori: non si può apprendere né inseguire. Si può giusto ammirarlo, lasciarsi contagiare dall’entusiasmo, restando nel poco e nel piccolo, con addosso e dentro un misto di curiosità e gratitudine.
Ci sono casi in cui la vita di qualcuno quasi si confonde con la fiaba e la leggenda. Eppure quella è stata vera al punto di aver lasciato tracce nette del proprio passaggio: le opere più grandi a volte hanno un formato piccolo, come i mattoncini Lego di Ole Christiansen

Se si percorrono gli anni a ritroso, scartabellando carte e immagini di varia provenienza, ci si ritrova a familiarizzare presto con le sorti non troppo benevole di un uomo testardo, volitivo, tenace: Christiansen aveva tutta l’aria di essere indomabile. Dovevano saperlo bene i figli, la moglie, i conoscenti e, prima di loro, i genitori che vivevano in un villaggio in Danimarca, tra poche altre anime, circa sessanta. Tutto quanto era ancora in pieno fermento, era un continuo tentativo di cominciare, azzardare, simulare, lasciarsi pure spiazzare all’occorrenza: l’evoluzione non si poteva sapere, non era mica invadente come ai giorni nostri. Era ancora il 1891, Ole era in fasce, i ritmi di vita dovevano essere lenti, pensosi, come sospesi. L’aria doveva sapere di buono: del resto la ferrovia sarebbe arrivata in un inoltrato e scapestrato Novecento, perciò c’era ancora tempo per gli spostamenti a rallentatore e i passi a calpestare il suolo senza troppa fretta avendo intorno non industrie e centri commerciali, ma un chiasso un poco più umano e meno artificiale, una comunità di contadini con le loro casette, le fattorie, i campi da arare, concimare, coltivare e ringraziare. Christiansen, crescendo, scelse di inoltrarsi nella realtà piccina delle botteghe artigiane, diventando un falegname: si narra che i suoi prodotti fossero di ottima fattura, ed erano mobili per adulti e giocattoli per bambini.

Non osò mai accontentarsi, perciò si spinse fino in Norvegia e in Germania, per racimolare qualche soldo in più e tornare nei suoi luoghi natali con risorse ben rimpinguate che gli permisero di acquistare la più fornita falegnameria di Billund, paese appena più grande di quello che aveva ospitato quel suo agitato venire al mondo. 
Le difficoltà non mancarono, i locali che scelse per la sua attività subirono due incendi: già uno sarebbe bastato per demolire, pure in senso metaforico, ogni iniziativa per chi non ha un grande patrimonio su cui fare affidamento. Invece la distruzione fece germogliare in lui il seme della rinascita e della caparbietà. Ricostruì ciò che era andato perduto, continuando a ideare, modellare, fare concreti e desiderabili quei suoi oggetti in legno, che mantennero i consensi ricevuti in anni di attività e che provenivano e supportavano la stessa azienda che arrivò a concepire, seguita con dedizione a dir poco ammirevole. A essa diede il nome di Lego, dal danese leg godt, ossia gioca bene. Sembrava già una promessa mantenuta, poiché proprio quel gioco stimolava la fantasia, non elencava regole, non imprigionava davanti a uno schermo: lasciava i bambini liberi di inventare qualcosa a loro volta, impilando quei mattoncini uno sull’altro fino a costruire castelli alti che imitavano in tutto e per tutto le immagini già fabbricate nella mente. 



Giunta una certa fama, Christiansen non si accontentò comunque dei risultati ottenuti e volle osare nuovamente: decise di acquistare un macchinario capace di produrre gli stessi mattoncini non più in legno ma in plastica. Contro il parere di tutti, persino dei suoi cari, decise di investire un capitale sostanzioso in questa impresa, che si rivelò vincente nel tempo ma folle agli occhi di chiunque gli capitò di incontrare. Era il 1949 ed era un declino lento, quello dei primi Lego incastrabili, che tuttavia era destinato a smaltire ben presto i suoi effetti e a invertire la rotta, ma purtroppo non prima della morte dello stesso Christiansen che avvenne nel 1958.

Adulti e bambini restano ancora affascinati dai Lego, a dispetto degli anni trascorsi dalla loro invenzione e immissione sul mercato, di prodotti sempre più competitivi, elaborati e molte volte tristi. Sono tante le versioni dello stesso gioco, spesso a tema: da The Walking Dead ai Simpson, da Il Signore degli Anelli a Star Wars, fino alle opere di Nathan Sawaya che un mattoncino alla volta hanno alimentato gli spazi della fantasia e delle emozioni umane riproducendo, nella mostra diffusa a livello mondiale e intitolata The Art of the Brick, opere d’arte, supereroi, pose tutte umane e semplici nelle quali riconoscersi. 
Perché il gioco, si sa, è una cosa seria. E anche se per poco, ha il potere di rubare l’attenzione alle malinconie, strizzando l’occhio allo stupore: fino a che non perderemo quest’ultimo, saremo sani e salvi.