Fotografia e manicomi

Alienarsi, oltrepassare, costringere: sono molte le parole in grado di creare una separazione tra una condizione e l’altra, insieme alla consapevolezza dell’esistere e al coraggio di chi decide di declinarla in ogni forma. E ancora tra chi parla, chi ascolta, e nel mezzo, proprio nel legame che viene a crearsi tra due o più persone, nell’esatto istante in cui almeno una parte decide di affidarsi senza troppe resistenze.
In un insieme vi è spesso chi si isola. Non è detto che non abbia doti belle da coltivare e proteggere. Non è detto che sappia come fare, a dividerle con qualcuno che non sia la propria mente, la personalità caduta in un involucro: la mente lo sa bene che non sempre è tutto facile, lineare, ovvio. Le cause e gli effetti sono argomento buono per i manuali di ogni genere, ma l’esistenza stessa è l’eccezione, la sensibilità, il guscio e la materia. L’esperienza che pone l’individuo su un filo sottile, che fa presto a dondolare alla prima spinta, anche se minima, fugace; e al primo vibrare dell’animo, fosse anche per la più lieve carezza o per il più atroce degli abbandoni: quel filo si ribalta, traballa, si spezza. La vita sembra un accessorio, è l’allucinazione; è la favola piccola e il raduno di cose minute, note e mai sperimentate. Ed è nel conforto che si vorrebbe e non si osa chiedere, nella paura e nell’incompiutezza. È nel titano che si appresta a compiere un’opera piccina e se ne lascia atterrire: è piccolissimo lui, ma solo dentro. È invisibile e combattuto, e sue sono le armi, sua la difesa e l’attacco, sua la maledizione e la tenerezza della resa: così dovevano essere i pazzi, spaventosi e teneri, persi eppure presenti, tutta carne e spirito di caligine. I pazzi che giocano a morra cinese, con le ombre e gli spettri avvolti nel manto argentato della notte. Quelli che dicono sì a un pezzetto di muro, a un ramo ritorto, a una foglia secca che graffia il vento. Quelli che chissà quale musica ballano, poiché si capisce che danzano pure stando fermi, pure se dentro qualcosa è andato rotto, trascurato, spezzato, e le parti non combaciano più.
Eppure lo diciamo ancora, che si può impazzire per amore, e amare da morire con tutta la vita che si può. Impazzire dalla gioia, oppure perdere il nesso tra le cose, e nelle cose stesse. Impazzire per modo di dire, e perdere lucidità solo in certi momenti, ma mai fino a un punto cruciale e definitivo. Sempre tenendo qualcuno per mano, forse solo sé stessi, ma in pieno possesso delle proprie speranze. E forse pronti a reagire, anche quando si capisce che la mente è una risorsa fondamentale, ma non è certo l’unica. Siamo ragionamento, ma soprattutto cuore pulsante, come le sensazioni. Esperienza che viene dall’istinto. Tristezza, che colora con le tinte vivide i momenti più vivaci: perché tutto sale, scende, vibra e ondeggia, come le curve, le stradine di campagna e certi casolari come punte di matita, persi nell’orizzonte; come un coro di voci, o un abbraccio voluttuoso di note o di amanti. Tutto è linfa, è espressione. E ogni cosa fa paura, quando è troppo grande e rischia di mettere a soqquadro le poche certezze acquisite: la follia non è detto sia degenere, e crea comunità strampalate, discorsi immaginari, tutti stipati dentro una sola realtà ammessa. E non c’è nulla di festoso, ma qualche volta sì. A volte al genio non bastano i confini umani, ed è allora che sbuca Oreste Fernando Nannetti, il colonnello astrale: uomo di terra, coi piedi radicati al suolo e i discorsi intenti a fare piroette tra cielo, astri e infinito. Ci si avvicina così a un mondo sconosciuto, anche guardando chi in sé non ha saputo mai restarci per intero. Qualcuno lo ha fatto grazie al potente mezzo della fotografia: a volte era poco lo sforzo e l’ingegno, poiché l’intento era quello di testimoniare le condizioni dei malati reclusi nei manicomi. Era una vera e propria prigionia, la loro. E gli scatti che li catturavano, erano solo linee guida, appunti presi in maniera alternativa, e riguardavano cure, oggetti, espressioni colte con piglio scientifico, che non lasciavano spazio alla componente emozionale e umana di nessuna delle parti coinvolte. Questa tendenza non vede mutare la sua natura fino alla metà degli anni Sessanta, quando cambia l’approccio verso quelle realtà, finalmente percepite come piccole frazioni, mondi sfaccettati e meritevoli di studio e di tatto, confinati oltre spesse linee divisorie: da un lato i sani, dall’altro gli emarginati, i dimenticati. L’isolamento non era cosa da sottovalutare: stare sempre in compagnia del proprio demone e tra persone considerate alla stregua di uno scarto, non aiutava certo l’individuo ad avere una concezione di sé diversa da quella che gli veniva imposta. Da qui la spersonalizzazione, la solitudine, e gli slanci, la fantasia, guardati sempre con sospetto.
Un esempio di fotografia accorata e partecipe è quella di Gianni Berengo Gardin: quasi ogni scatto è pensoso e quieto, e ha tutta la calma che non desta clamore e raccoglie le storie narrate dai gesti e dai silenzi. Con Gian Butturini, la fotografia è uno strumento prezioso che dal 1974 al 1976 offre un supporto alla storia che conduce alla chiusura dei manicomi. Il tempo resta immerso nella superficie breve e nervosa di una foto; i volti che vi rimangono impressi, e le pose, non hanno l’aria di essere afflitti da uno sguardo accusatore: sembrano stupiti, ma piano. Sembrano compresi, accarezzati, osservati. Non è più tutto invisibile, nemmeno il bisogno; neppure i luoghi trascurati, offesi, raggelati, riempiti di scritte, macchie di colore, oggetti accatastati e vecchi da fare paura per davvero, per la trascuratezza e i segni di un tempo inclemente, passato ad oltranza e senza tenerezza. Solo spietato, vinto e inconcludente.
© Gian Butturini. Ringraziamo l'Associazione Gian Butturini per averci consentito la pubblicazione della foto.
Con Carla Cerati l’emozione prende il sopravvento in molte forme: dalla disperazione al sorriso per poco, allo sguardo sospeso nel nulla e aggrappato a un sottile filo invisibile. Ai gesti che qualcuno fa, come volesse nascondersi e svanire in un soffio. Eppure resta lì, visibile e frainteso, afflitto dalle colpe che non ha.
Uliano Lucas ha un impatto diverso con quella realtà, quasi provocatorio, privo di ogni soggezione. Ha uno sguardo sornione e veloce: non gli sfugge nulla. Sue sono le malinconie, suoi i sorrisetti spuntati all’improvviso sui volti raggrinziti da tanti anni sulle spalle e chissà quanto dolore inghiottito a denti stretti.
© Uliano Lucas - Ringraziamo l'autore per averci consentito la pubblicazione della foto.
Non è mai troppa l’ammirazione per chi riesce a dire, così, proprio tutto ciò che viene taciuto. E la malinconia per le cose che accadono e creano fratture, separazioni e differenze, bene al di là di ciò che appare. La fortuna è vivere, e restare il più possibile in un equilibrio che non è legge e non è regola: solo per pochi è un merito costante, e per troppi è la fortuna di essere nati dalla parte giusta delle cose, in una metà appena tratteggiata: le ombre sono sempre in agguato, così il fragore di certi attimi belli. Tutto sta nel sapere che è fragile il mondo e l’animo umano; e nel saperci convivere, nel saperlo comprendere. Nel riuscire a farne una dote e una risorsa, e non soltanto un peso.

Nicoletta Prestifilippo