Tiziano Terzani, il reportage come missione

Tutte le volte che mi sono ritrovato a leggere i libri o gli articoli di Tiziano Terzani, ho indugiato spesso attorno alle stesse riflessioni. Non mi riferisco solo alla geopolitica e ai suoi derivati, ma proprio a Terzani in sé: è possibile pensare a un lavoro migliore di quello che ha svolto lui nell’arco della sua esperienza giornalistica?
Certo, bisogna essere di parte e amare quantomeno la scrittura e viaggiare. Essenzialmente Terzani ha avuto carta bianca sia a livello di mete che, in buona parte, di contenuti. Come ha sottolineato più volte nelle sue ampie e dettagliate memorie, il Der Spiegel – periodico tedesco col quale ha collaborato per un ventennio – lo ha lasciato spesso a briglia sciolta, permettendogli di maturare esperienze molto lunghe nei luoghi in cui è stato inviato. Sono queste le condizioni in cui ha potuto portare a termine articoli e libri di grande accuratezza, testimoniando in prima persona alcuni eventi che hanno cambiato il corso della storia.
Difficile non citare, in quest’ottica, Buonanotte, signor Lenin, che costituisce un documento incredibile non solo sul crollo dell’Unione Sovietica, ma anche sulla vera natura dei cambiamenti epocali. Ecco, immaginate Terzani percorrere un fiume siberiano e scoprire che a Mosca, lontanissima in ogni accezione rispetto alla desolata periferia di quelle latitudini, lo scricchiolante pachiderma socialista cavalcato da Michail Gorbačëv è arrivato al capolinea. Di tante cose che un reporter potrebbe fare, lui sceglie quella più esaustiva: visitare tutte le – ormai progressivamente ex – repubbliche socialiste sovietiche. Scopre così, toccando con mano, il vero volto di ciò che è stato al di là della cortina di ferro, dell’immaginazione dell’Occidente, delle esaltazioni e dei drammi.
Il risultato è un’opera che testimonia come alcuni danni fossero irreparabili e che, in realtà, il rimpasto sarebbe stato soltanto di facciata e avrebbe portato a incrinare ancora di più degli equilibri oramai impossibili da ripristinare. Si tratta a conti fatti di un libro di storia “on the road”, ripercorsa attraverso le impressioni a caldo di persone solitamente lontane dalle mire della stampa internazionale: semplici e poveri cittadini, potenti signori della delinquenza e politici camaleontici di mezza tacca.

Libri come compagni di viaggio
Sia in questo libro che negli altri reportage, che narrano prevalentemente vicende legate all’Asia, emerge il connotato fondamentale che dovrebbe avere un reporter, ovvero quello di sapersi immedesimare in toto nell’ambiente circostante. Terzani ha vissuto per lunghi anni nella maggior parte dei paesi che ci ha raccontato, correndo spesso pericoli mortali o incappando in espulsioni, come accadde in Cina. In alcuni casi non si è ambientato del tutto, basti pensare alla sua esperienza in Giappone, del quale ha evidenziato i paradossi del suo – all’epoca – inarrivabile progresso tecnologico.

Altro elemento centrale è il suo modo di documentarsi, completamente fuori dai canoni. Terzani consultava vecchi libri, redatti da suoi colleghi del passato – spesso alquanto remoto – e si divertiva a scoprire cosa fosse cambiato rispetto a quei tempi. Ripercorreva, dunque, delle storie apparentemente parallele alla sua, e con pazienza riusciva a farle convergere.

“Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo, senza chiedere nulla”. (Un indovino mi disse)
Fonti antiche per contenuti nuovi. È difficile fare un paragone con l’approccio che pervade il giornalismo moderno e, nello specifico, con il ruolo del reporter: grazie al cambio di passo dettato dalla rete, le notizie sul mondo sono accessibili in tempo reale, ma la qualità dell’informazione rischia di passare in secondo piano. La nemesi del reportage. Terzani è morto poco prima che internet diventasse l’indiscusso primo canale di comunicazione e non sapremo mai come avrebbe reagito a queste novità. Parliamo di un giornalista di fama mondiale che si prese la briga di credere alle parole di un indovino di Hong Kong, il quale gli consigliò di evitare di salire a bordo di aerei nel corso del 1993. Da quell’avventura incredibile nacque il già citato Un indovino mi disse. Spostandosi lentamente, a volte con mezzi di fortuna, riuscì a catturare l’essenza di un continente destinato a emulare il ritmo della modernità.

In conclusione ecco un estratto de La fine è il mio inizio, un libro uscito postumo e che racchiude una serie di lunghe chiacchierate avute col figlio Folco, riguardanti la vita professionale del reporter fiorentino e non solo. Va detto che Terzani ha coinvolto la propria famiglia nei suoi spostamenti, permettendo a moglie e figli di condividere il suo credo: un buon reporter non può essere di passaggio, ma deve davvero penetrare nel tessuto sociale. A costo di snobbare le scorciatoie.

“Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? […] Non mi è mai piaciuto. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano […] mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all'idea di essere vicini al Potere, di dare del “tu” al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo”.

Gabriele Ludovici