Fabio Ivan Pigola (Divergenze editore) intervistato da Saverio Stella

Treno delle 6:28, domenica mattina. Orario da pendolari anche nel giorno di riposo. Fabio Ivan Pigola ha un destino da crumiro, ma non corre incontro al patrimonio. «Quando me ne andrò,» spiega Pigola, meneghino fino al midollo, direttore editoriale di Divergenze, «in banca non troveranno soldi. Nella vita ho preferito gli amici». Lo afferma senza imbarazzi, con la faccia di chi non cerca l’espressione giusta e si accontenta della sua, anche se buffa.
Lo conosco da quattordici anni e ci ho parlato di tutto, ridendo di ogni fatto o individuo, perché l'ironia è l'antidoto alla lamentela. Credo non sappia neppure alzare la voce. Voce che, peraltro, ha anche un rilievo nel mondo letterario, ma non è cosa a cui tiene.
Dice che a diciott'anni andò a intervistare un prete famoso per il periodico della scuola, e quando si presentò come giornalista e peccatore, il vecchio prelato rispose che la prima qualifica era la peggiore. E se da allora non ha ripetuto l'esperienza, ha comunque continuato a muoversi nel mondo degli scritti prima come consulente letterario, ora anche come editore. So che la sua avventura non ha scopi lucrativi, poiché «l'editoria è una scienza in perdita se la vivi con amore, e in economia, sulla pagella, avevo il quattro fisso».

Gli faccio notare che è rimasto uguale, nonostante l'età sia più che raddoppiata. C'è qualcosa che rimpiangi dei giorni delle scuole superiori?

«Non sono un tipo da rimpianti. Se vuoi fare un paragone con l'attualità direi le lettere di carta, le chiacchiere senza lo smartphone tra le mani, la comunione. Ora c'è la solitudine».

Un fantasma mica da poco. E i libri?

«I libri gli tolgono il velo, sono un modo per dargli il foglio di via. Anche qui, una volta scriveva solo chi era bravo, e poteva piacerti o no l'argomento, ma oggettivamente dovevi riconoscere che l'autore ci sapeva fare. Oggi scrivono tutti, e con Divergenze volevo provare a restituire alla scrittura il valore di un tempo».

Quindi, selezione dura?

«Già. La soddisfazione più grande, per una casa editrice il cui padrone è il lettore, è quella di non dargli mai un bidone. Finora, quelli che hanno letto un titolo Divergenze sono tornati a cercarne un altro, in fiducia. L'impegno a non tradirla è qualcosa che fa sentire bene, realizzati».

Una professione di fede...

«È un credo tutto mio. La fede, i nostri paisà, l'hanno spostata dalla parrocchia ai partiti, tutt'al più alle squadre di calcio. La letteratura è una vocazione rischiosa, chiede un sacco di impegno, e tra la borsa e la vita è tanta la paura di rimanere scottati».

A proposito di bruciature, ho saputo che ti hanno dato fuoco al magazzino. Io avrei piantato un casino tremendo.

«Facendo felice il furbino dal fiammifero facile?».

Se la metti così, non ti do torto.

«E come la vuoi mettere? L'uomo fa dispetti ai propri simili da quando ha scoperto che può dare un dispiacere anche da anonimo, anzi, gode di più, perché non si fa vedere in volto e sente l'altro dispiaciuto, rabbioso, o comunque nei guai; dunque lascia e raddoppia».

E tu non sei arrabbiato?

«No. Sai che sono privo di aspettative, specie sugli uomini. Ho imparato che tutto quanto ha un lato negativo e uno positivo».

Che c'è di positivo in un rogo di libri?

«Ricevere solidarietà vale più che esaurire due edizioni».

Touché, di nuovo.

«Piuttosto, mi sgomenta notare come ogni volta gli atti di viltà abbiano una risonanza maggiore di quelli di coraggio».

È un problema nazionale. Ci piace troppo mettere in piazza le sventure degli altri, e se vediamo un gesto così tiriamo fuori subito i nazisti, i nemici della cultura, e lo buttiamo nella pattumiera del social. Non ti chiedo neanche se è accaduto, è troppo ovvio. Hai accettato aiuti da qualcuno?

«Ho ringraziato tutti per la vicinanza, quello è stato il più grande aiuto».

Tutto lì? Nemmeno una colletta, un gesto simbolico...

«E perché mai? Divergenze deve cavarsela coi suoi mezzi, cioè i libri. Sono evaporati? Prendo il telefono, chiamo il tipografo e faccio tirare altre copie. Chi è solidale non ha colpa dei roghi, ciò significa che non deve perdere un solo centesimo. Ha già speso la parola, che è più sostanziosa e meno fredda».

Sei poco bandito. Troppo poco. Altri avrebbero sfruttato la cosa, chiamato l'Ansa, fatto arrivare la notizia ai telegiornali... sai che pubblicità per la casa editrice?

«Vomitevole. Peggio di chi vende i santini di Padre Pio, o l'acqua di Lourdes. Chi non è toccato dalla grazia rimane colpito, più che dai segni del cielo, dai commerci della terra. Nel dopoguerra ci fu perfino un tizio che aprì una sottoscrizione per la madre del Milite Ignoto».

Magari ha avuto pure successo. Che cos'è, per te?

«Il successo? Fare le cose che ti piacciono».

Alludi a quelle senza tornaconto?

«Anche. I soldi alzano la mira e colpiscono al cuore. Io non ho tendenze suicide».

Però in tanti hanno pronosticato a Divergenze una vita breve.

«Non sapevo che fossimo quotati alla Snai. E a quanto danno la chiusura in un anno per merito dell'Inps?».

Ce la fai a dare una risposta seria?

«Hai provato la partita Iva? Provala, e vedrai che sono serio. Ma fossi in te rimarrei dipendente, la resistenza è una cosa da incoscienti».

In effetti, è un'arte complicata in un Paese deteriorato come l'Italia.

«Il certificato del deterioramento è il ricatto degli idioti che subiscono anche gli intelligenti, che sono come terrorizzati. Basta ascoltarli, o leggere cosa scrivono. L'annientamento dei migliori di cui parlava Weininger si sta realizzando, e noi siamo all'avanguardia».
Rosa Mangini, La rivoluzione, forse domani, Divergenze

E gli italiani che fotografa la Mangini? Ho letto il libro “La rivoluzione, forse domani” ed è una perla. Una scrittura femminile che scavalca qualunque Deledda, qualunque Arendt.

«Non è questione di confronti, ma di contenuti. I suoi italiani, anche se del Quarantuno, sono attualissimi. Da una parte c'è chi sta col duce perché gli conviene, dall'altra c'è chi tace perché a lui pure conviene: il quieto vivere, le rappresaglie... Però devo fare una premessa: la Mangini è un biografo del tempo, e la sua è una scrittura privata».

Cioè?

«La novella non era destinata a nessuno. Con la scrittura che aveva, poteva pubblicare tutto ciò che gli andava, e senza difficoltà. Invece quell'opera l'ha scritta per sé, per non dimenticare una vicenda che, abbiamo appurato, è capitata davvero. Forse gliel'hanno raccontata, non sappiamo ancora chi; di sicuro è tutto vero, personaggi compresi».

Che qualità riconosce a noi italiani, nel romanzo?

«Una su tutte? La solidarietà. Ne avevamo tanta. Quel sentimento ci ha fatti uscire dal disastro della guerra e risollevare come nessun altro. La gente si era protetta a vicenda, perfino gli operai avevano nascosto i pochi macchinari rimasti per salvarli e ripartire. C'era una speranza, oggi c'è rassegnazione. La Mangini stessa fa parlare uno dei primattori del racconto e gli mette in bocca un sogno: la repubblica democratica d'Italia. E chi mai ci avrebbe pensato, specie quando erano tutti col duce, e i fasci vincevano, e la stampa era allineata, e dava per certa la vittoria dell'Asse sugli inglesi?».

'sta cosa della rassegnazione fa veramente paura. E i difetti?

«Quelli di sempre. Siamo servili, ritardatari, e quando ci adeguiamo il pasticcio è completo. Tra le virtù c'è la sopportazione, solo che nel nostro caso è passiva: tolleriamo tutte le mascalzonate di chi gestisce gli affari pubblici e la Mangini lo chiarisce in un paio di dialoghi: ci sentiamo in colpa perché al loro posto faremmo così, è un giro di complicità piuttosto evidente. Poi, è storia, e l'autrice lo sottolinea, allora gli uomini in buona fede erano più numerosi, credevano sul serio in certi valori».

E gli intellettuali?

«Anche loro, nella gran parte son rimasti uguali: urlano quando tutti gridano, tacciono quando dovrebbero parlare. Il fascismo nasce come movimento agrario contro le cooperative e le leghe rosse, ma prima ancora era un gruppo di reduci, di ufficiali. Poi, per tornare al concetto di prima sulle complicità, appena prende il potere occupa le fabbriche, diventa il partito degli industriali e alla fine l'unico, l'assoluto. Non c'è più spazio per altri. E una volta caduto il fascismo che cosa è cambiato per i poveri? La demagogia: si sono dichiarati tutti per loro, e tutto è ancora identico. È una delle tante profezie che la Mangini semina qua e là nel racconto, e nemmeno troppo velata».

Una fattucchiera della letteratura.

«Col sesto dito del grande autore. Sapeva che le stagioni non le fa il contadino: vengono, e lui le aiuta, le ascolta, come non sappiamo fare più».
Interessante video di Tivù Pavese in cui Fabio Ivan Pigola 
racconta come ha scoperto il manoscritto di Rosa Mangini.

Saverio Stella