Il Natale della B perduta - racconto

«Bambagia, baccano, bastone, bottone. Ripeti insieme a me: bambola, bisturi, bocciolo, battito».
Lei non voleva proprio dirla, quella lettera. Le veniva in mente un bacio ma non lo sapeva dare. Provava a scriverlo, quel suono tondo; ma chi doveva dirle come fare, se non l’aveva appreso mai?
«Aridità», disse alla zia: «ecco cosa mi hai insegnato. È tutta colpa tua. Chi lo dice che uno alla fine faccia sempre uno, e che la somma dell’individuo, moltiplicata per le voglie e le necessità, non sia invece prossima a un numero infinito?».
«Smettila con ‘ste fandonie, e prendi l’acqua dal pozzo. Solleva piano il secchiello: la corda tiene per miracolo, se si spezza ti ci puoi pure calare tu, lì sotto. E guarda in basso, fregatene delle vertigini, tanto lo sai che non cadrai: sei bassa e conficcata al suolo, con quei discorsi che pesano più della fame. Resterai qui a lungo e, mio malgrado, vedrai; coi tuoi piedi sgraziati, le calze bucate, e quell’insetto a inerpicarsi su per la collina dell’alluce».
Aveva ragione la zia, si diceva; e aveva pure scordato di nominare le sue paure: quelle avevano un peso di piombo e provavano ad affossarla insieme al suo grigio avvenire; ma lei sfoderava armi potenti, tipo i sogni ad occhi chiusi e aperti che tesseva fin da quando era bambina; e con quelle trame fitte e dorate volava alto, senza stancarsi mai. I mondi alternativi non li diceva, però: temeva si sciupassero solo percorrendoli col respiro in corsa e l’immaginazione che non contemplava gli impedimenti. Si chiedeva come potessero coesistere le due parti di lei in lotta costante: quella vera, reale e taciturna, e l’altra, così aggraziata, assorta e audace. Il disappunto per le forzature che doveva sopportare si tramutava nel capriccio di una lettera “b” in sciopero perenne: ecco qual era, la sua muta rivalsa.
«Non mi puoi aandonare».
«Abbandonare. Si dice ab-ban-do-na-re. E poi lo sai che tutti ti abbandonano, lo ha fatto anche tua madre. Lascia che passi ancora un anno e vedrai: sarai maggiorenne, dovrai badare a te stessa. E io andrò in Canada, con l’uomo mio».
«Lui non sa neppure che esisti, zia».
Quella le tirò una scarpa in testa, e fu così che mise fine a ogni discorso.
«Buon Natale! Buon Natale!», le augurò una donna che passava di lì.
«Uon Natale a lei, signora. Uon Natale!». Rispondeva tra i denti che battevano una danza sfrenata, col freddo che c’era. La zia le piantava uno sguardo velenoso dritto negli occhi. Ma lei lo smontava presto: aveva proprio sulle pupille i bagliori intermittenti delle luminarie, piccole scintille di speranza, e quell’amore segreto che non poteva smettere di guardare: eccolo lì, dritto su anfibi neri e lerci, in un angolo di strada affollato. Indossava un cappello di lana rosso e bianco, una finta pancia tonda, coi bottoni neri della giacca e ancora del rosso sparso ovunque a macchie larghe, a traboccare pure dalle guance che pativano la carezza pungente del freddo. Sulla barba di cotone, si accanivano refoli di vento e manine di bimbi che tentavano di strapparla e gridavano: tu non sei Babbo Natale! Babbo Natale non esiste! Ma quando quello per tutta risposta si esibiva nella risata tipica dell’omaccione sulla slitta con le renne, il classico Oh Oh Oh, mica potevano ribattere: si mettevano lì intorno con la bocca tonda per lo stupore, provavano ancora a darsi un contegno, a farsi impettiti e grandi. Ma no, erano proprio piccini. Quella risata era una prova inconfutabile della loro disfatta.
Lei rimase lì, non vista dalla zia, dai passanti, dai bambini. Vista da lui, però, sotto la barba, il cappello, la pancia di gommapiuma che sbucava dai bottoni che tiravano, tiravano… una mano agganciò lei per errore, con un anello al dito e una grossa pietra impigliata fra trecce di lana infeltrita. Tirò il suo vestito, la fece inciampare, nemmeno si scusò: quale sgarro era, quella sua piccola e felice povertà. Quale affronto: come poteva sorridere? Lei si ricompose alla meglio, lo guardò e gli disse da lontano e a fior di labbra: ti aspetto dove sai.


La zia dormiva. Dormiva e russava, con la testa appoggiata su un cuscino ricavato da scampoli di stoffe ammucchiate dentro una fodera sdrucita. Lei mise due strati di calze, la sciarpa che era di sua madre. Poi ravvivò i capelli con le mani, si pizzicò le guance per arrossarle un pochino. Si avvolse in una vecchia coperta, e chiuse gli occhi per un istante, immaginando di indossare un abito pomposo alla maniera di certe principesse. Rise piano, e uscì di casa col cuore che invece le batteva forte. Vide lui con la schiena poggiata su un muretto mezzo diroccato. I riccioli neri, le mani grandi, la bocca rossa, man mano che si avvicinava. Oh Oh Oh, fece lui. Lei gli coprì gli occhi con le mani fredde, e gli sussurrò: «Bambagia, baccano, bastone, bottone. Bambola, bisturi, bocciolo, battito. Se adesso mi baci, io la saprò dire all’infinito, quella lettera. Ma per te soltanto».
Restò in attesa, e collezionò in silenzio altri vocaboli; li aggiunse a una lista di regali che le sembrava perfetta: bellezza, brama, baci, biancore di neve, altri baci, busta di lettera e brividi risoluti. E ancora baci, poi, per recuperare il tempo speso male e il dolore di chi sa di essere solo al mondo, a pungere ben più del freddo di Dicembre.

Ora c’è posto per un gatto, un dipinto che le racconta un mare visto mai. C’è posto per un secchio nuovo, per le scarpe con le stringhe colorate comprate con pochi soldi da un vecchio calzolaio che non ha più un mestiere, ora che è vecchio e racconta storie che nessuno ascolta più. E certo non si va in Canada, dove vive la zia in cerca del suo amore: chissà quale strana regola seguono gli affetti, in quel suo animo bitorzoluto; ma si resta qui, invece, con il progetto di una piccola bottega, una bimba che scimmiotta i modi delle baronesse, una bettola che insegna l’allegria ai pochi paesani rimasti, insieme al senso del raduno, delle ricorrenze, dei riti da inventare ancora e meglio. Si resta qui, che è un posto buono, con le parole che iniziano per b, panciute e tonde come non mai. E sembra sia freddo da sempre, ma non importa: una mendicante che avrà almeno cento anni muove dita scheletriche con abilità da prestigiatore. Lascia piovere sul palmo di una mano un mucchio di porporina, soffia forte, ed ecco una farfalla di carta sbucare dal nulla: inventa come può il tepore che manca, mentre strizza l’occhio alla bambina che saltella per una via indaffarata e placa il vuoto dell’indifferenza fermandosi di schianto e chiamando la sua mamma: quella che prima parlava a modo suo, quella che le b proprio no, quasi mai.
«Buon Natale, belle signore» dice la mendicante.
«Buon Natale», rispondono in coro, tra l’incanto dei fiocchi di neve e i colori di mille farfalle. Poi riprendono il loro cammino, su una strada tutta buche, odorosa di biscotti al burro, zenzero e cannella. Col papà che aspetta lì, nel luogo scelto come dimora; con l’allegria di poche cose, e un mondo su misura esatta dei propri orizzonti. Pieno di baci, come è ovvio. E di balocchi, banchetti, battelli a vapore, borracce da riempire quando era il tempo dell’avventura, begonie, betulle e bonsai. E poi bucce di banana per l’ilarità di certi scivoloni, e bucce di mandarino e di limone per gli odori della festa. Poi blues e blu, tanto blu, come il mare e le sirene che consegnano il sonno a Basilea: a lei che è solo una bimba, coi capelli come fili di luna ad ornarle il capo, e nei sogni i racconti di una dea, mescolati al suo piccolo mondo.

Nicoletta Prestifilippo