Tra Lea e Giuditta: le donne sinuose di Piero Chiara

Quanto è bello chi scrive, quando crea mondi con le parole e uno vivrebbe lì dentro, vi prenderebbe casa e storia reinventandosi.
L’abilità è tanto più grande se le (ir)reltà narrate da uno scrittore coprono poche pagine. Perché tutto quanto deve avere un inizio, una causa scatenante uno o molti eventi; oppure una sola forza che fermenta, che ribolle di continuo in sottofondo come pozioni strambe dentro un calderone. Un movimento costante, cupo o allegro ma comunque di tensione anche docile, sottile, in grado di tenere il lettore ancorato alle formule corpose e liete delle parole usate per intrattenere.

Ho letto di recente alcuni racconti di Piero Chiara (Ti sento, Giuditta in L'uovo al cianuro e Il bombardino del signor Camillo in Il capostazione di Casalino): quale golosa delizia.
Si fa presto a trovarsi coi sogni sgangherati, maciullati tra le dita strette in tasca, certe volte. 
Si cammina fino ad avere stanchi i piedi pur di finire i pensieri cattivi e colorarli coi sentori buoni, come un pallido riflesso di luna a giorno inoltrato ad anticipare una frescura serale e notturna, a spezzare la pressante calura dell’estate: sollievo goduto già in prestito, con la dolce intromissione delle più piccole previsioni.
A forza di camminare e di guardarsi intorno non sono pochi i fiori, le nubi arricciate, l’odore del mare annusato come i gatti da una folata di vento, lontani dalla calca e vicini al proprio respiro, alle piccolezze che fanno grandi le voglie. E si finisce per ricamare storie sul vecchietto con la schiena ad uncino, la canottiera infilata nei pantaloni lunghi fin sopra il ginocchio e l’aria arzilla, pure coi passi claudicanti; sul cigolio di una girandola, sugli odori dei cibi provenienti dalle case, sul pianto di un cane piccino che chiede in concessione un po’ di spazio oltre una porta chiusa, per un boccone di sonno goloso da spalmare sul pavimento fresco di casa.
E chi con la testa sulle nuvole ci vive da sempre, spererebbe magari di camminare ancora e fermarsi a un certo punto nei pressi di un uomo che si chiama Amedeo Brovelli: «ex commerciante ritirato dagli affari con poca rendita, nelle giornate di tramontana stava fermo per ore intere sul molo, coi capelli grigi arruffati dal vento che lo prendeva di spalle. Non pescava e neppure abbassava gli occhi sullo specchio d’acqua del porto, ma teneva lo sguardo rivolto verso il paese, senza espressione, come se guardasse nel vuoto». 


Immagine da www.oscarmondadori.it


La parte necessaria di alcuni racconti sono le atmosfere.
Si può ridurre le parole all’osso e a volte si deve: spesso sentire in grande è parlare in piccolo e non usare fiato più del dovuto, anche perché la bellezza toglie il respiro e allora bisogna pure farne una discreta scorta in anticipo.
Al Brovelli poi, il respiro serviva in buona parte a tirare in petto tutta l’aria possibile: aria fragrante, generosa, colma di odori da attendere e ringraziare con spirito neppure scalfito dall’assenza. Perché se è vero che la fonte delle varie essenze restava imprendibile, è altrettanto vero che la soddisfazione metteva in corpo e in mente sensazioni vere, leali, corpose, che finivano per strizzare l’occhio ai pensieri detti impuri e dunque purissimi, per il capriccio delle più divertite e sapienti contraddizioni.
Il Brovelli aveva in simpatia un ragazzo che gironzolava dalle sue parti, nei tempi felici e dilatati del naso puntato per aria a cogliere fragranze venute da lontano a raccontare novelle intriganti e languori misti, a galleggiare sopra e intorno al molo che pareva quasi una seconda casa; la prima, in termini di elezione.
Quel ragazzo guardava di sottecchi i movimenti del Brovelli quando mugolava al vento che lo coglieva alle spalle, godendone ad ampie sorsate. Finirono per diventare complici, i due: il signor Brovelli aveva un’aria impensierita, sorniona, e non perdeva tempo a parlare di cose superflue ma degli odori che erano necessari poiché fissavano come su una tela, come in uno scatto, ogni realtà imprendibile: l’odore morbido del pane di Cannobio, l’odore delle capre e quello pungente delle stalle; l’odore legnoso del tabacco e dei sigari che si innalzava e correva fin lì da Brissago, sulla sponda Svizzera. E «una volta si sentiva, se era venerdì, anche l’odore del baccalà che veniva da Maccagno, dall’osteria della Gabella; ma bisognava stare in piedi sul muretto, perché gli odori vicini sono quelli che passano più in alto. Ora, dopo che hanno costruito la fabbrica degli acetati, l’odore devia e non si sente più». 


Ecco l’amarezza per il nuovo che avanza con la pretesa di soppiantare il vecchio e il tenue: l’invasione dell’utile ad ogni costo, del commercio, della brama di avere ciò che non si sa ma che deve essere importante se riempie sulla bocca di tutti. Dunque le fabbriche, l’imperativo dell’inventiva in blocco, uguale per le masse: la novità la recitano solo gli slogan perché acquistare è il dovere di ogni buon cittadino di mondo e di contrada. Se acquisti, sei: nulla di più deleterio. Non a caso il caro Brovelli ancora esitava: voleva farsi e fare del bene, quando annusava tutto e una cosa in particolare che al ragazzo non si poteva dire, e che faceva vibrare l’uomo del molo così compiaciuto, preda di una sete misteriosa e un delirio di febbre, che quasi lo si vorrebbe sempre quel contagio: «Ti sento… Ah, che roba! Giuditta… Giuditta…». 
Si legge e si sorride a mezza bocca, perché così sarebbe piaciuto al Brovelli; si immagina Giuditta che non ha mica un solo tratto rimarcato tra le pagine, ma si posa sinuosa sulle fantasie di chi la evoca e la disegna in mente, forse rotonda e accogliente, magari godereccia, vestita di un’aura felliniana sottile-sottile da strappare via coi denti come una veste scomoda per le carezze.

Gli odori sono una magia, un tacito accordo tra due che si intendono e non importa che siano scienziati o visionari, ebbri di vino o di voglie: l’illusione è tanto buona. Quando svanisce non resta che una fame perenne, una voglia mai stanca di cercarla in ogni dove. E la si scova spesso tra i libri, ecco perché li si ama così: basta un salto di poche pagine ed ecco che compare Leonida detta Lea, per accorciare un nome di impronta maschile datole per svista.


Immagine da www.librimondadori.it


Lea abita una casa che è regno e prigione: casa povera, scatola incastrata fra altre scatole, tutti ad abitarsi vicino e a non sapere che pochi lembi di una verità ben più grande, un tessuto ampio da consumare a suon di piccole maldicenze e chiacchiere da cortile.
Lea è una figura nodosa, robusta, che rigoverna casa con instancabile disciplina, lasciando inabitato il corpo così abituato a non tenere conto che di esigenze minime, necessarie alla sopravvivenza.
Lea ha circa quarant’anni ed è sposata col signor Camillo: un suonatore di bombardino spesso in trasferta per lavoro. E non è che qualcuno ne sentisse la mancanza, tanto più che piano e con insistenza silente e affatto sgradita, alla quotidianità della donna si mescolavano le visite a sorpresa di un ragazzo poco più che adolescente, che senza invito si infiltrava in casa di Lea, la guardava affaccendarsi ben benino e succedeva che non spiccicasse parola se non di tanto in tanto, per raccontarle dello sport che aveva scelto per dare alla famiglia l’impressione che si stesse risolvendo in qualche modo, quell’inconcludenza infantile: bisognava farsi uomo presto. Scelse la lotta greco-romana ed era un vanto, faceva forti almeno con le parole.
E quando Lea chiedeva quanti ne avesse atterrati nelle ore di allenamento, il ragazzo si faceva tutto tronfio, inventava cose grosse e un bel giorno, su invito di lei, si cimentò con una dimostrazione pratica del suo talento:

«Sarei capace» trovai il coraggio di dirle mentre mi voltava le spalle «di atterrarla anche qui, su questo tappeto.» La signora Lea si voltò con una smorfia di compassione sul volto. «Avanti» disse. E mi si mise di fronte con le mani appoggiate sui fianchi. La abbracciai intorno alle gambe e cercai di alzarla, ma lei mi cinse le spalle e mi strinse al corpo facendomi cadere sulle ginocchia. Avevo la faccia contro il suo seno, e sulla bocca dello stomaco la prominenza del suo ventre, tondo e duro. Stavo fermo, cercando di capire con le parti del mio corpo che aderivano al suo tutto quanto non mi era ancora noto di un essere femminile. Non pensavo neppure ad atterrarla, anche perché le mie poche forze mi stavano abbandonando. Quando lei si chinò per sciogliere le gambe dalla mia stretta sempre più debole, mi venne in mente una mossa imparata in palestra, e avute libere le braccia, cercai di appoggiarmi alle sue spalle per stenderla in posizione perdente. Ma se ne accorse, e cadendo con me sul tappeto mi fece compiere un mezzo giro. Ero quasi con le spalle al suolo, quando mi lasciò libero. La presi allora a mia volta per le spalle e la stesi supina, senza che mi opponesse resistenza. Mi sentivo così spossato, che le caddi a fianco, inerte. Nella lotta la signora Lea aveva perso due o tre bottoncini della camicetta, che si era aperta e lasciava intravvedere il rilievo del suo seno, coperto dalla sottoveste. Se ne accorse, si mise seduta e strinse la camicetta intorno al corpo. Poi, voltandosi e portando un ginocchio a terra, si alzò lentamente. Mi tese una mano, mentre con l’altra teneva chiusa la camicetta. Mi aiutò ad alzarmi e avviandosi verso la cucina disse: «Credevo di essere più forte». Non aggiunse altro ed io non trovai nulla da dire. Mi riassettai e senza salutarla salii al terzo piano.

Non mancheranno ancora intrecci; e la presenza fantasma del signor Camillo col suo bombardino: quest’ultimo si rivelerà animato forse più dell’uomo che lo anima e che pure essendo dotato di vita rinuncia agli slanci tipici della stessa in parti cruciali del racconto; si lascia attraversare come le età che scombinano i piani dei due trovatisi a lottare per sapere da vicino il corpo dell’altro, con voracità giusta e lampante nonostante tutto.
La sensualità e la sessualità nata e rinata, offerta con le parole, ha i tratti invitanti delle cose che non sempre devono palesarsi, anzi: ciò che resta implicito ha un potere di seduzione e di curiosità a dir poco efficace.
Maneggiare l’implicito è arte di pochi, e si è rivelata maestosa perché così succosa e semplice, tra le mani di Piero Chiara.



Nicoletta Prestifilippo